Ad affermarlo è un recente
studio, secondo il quale chi gode di una certa capacità intuitiva e ne
usufruisce per curare delle persone con dei problemi, ed ha dunque
l’opportunità di analizzare e comprendere appieno i loro problemi e le loro
sofferenze, ha evidentemente una sensibilità maggiore, e ciò lo porta ad una
consapevolezza dannosa proprio per se stesso.
In poche parole, venire a
conoscenza di certe malattie e di certi sintomi, e comprenderne le cause, non è
assolutamente positivo, soprattutto per alcuni soggetti. Se pensavate che
alcune “cattive” abitudini, come quelle legate al mondo della droga, fossero
caratteristiche da attribuire solo ai ceti più bassi, e dunque teoricamente
meno acculturati, questo è stato ormai confutato.
Ciò che accomuna le grandi menti
a quelle più volubili è la curiosità: grazie allo studio condotto da alcuni
scienziati dell’Università di Toronto e del Mount Sinai Hospital, è stato
finalmente compreso il legame tra la curiosità e l’intelligenza, che sarebbero
legate proprio a livello molecolare da una proteina in una zona del cervello di
cui finora non si sapeva proprio nulla. Tale proteina controllerebbe entrambi i
caratteri umani.
Quindi, nonostante la cultura sia
il fondamento della società, più si accresce il proprio quoziente intellettivo
più vi è la possibilità di andare incontro a condizioni sfavorevoli quali la
depressione e l’ansia.
È proprio per questo che
tantissime persone intelligenti cadono nel mondo della tossicodipendenza, o in
quello dell’alcol: secondo alcuni scienziati britannici, le persone
intelligenti hanno una probabilità più alta di essere ubriachi, ad esempio, il
sabato sera. Ecco, proprio qui si trova il nesso tra sofferenza e intelligenza.